CLAUDIO FILIPPINI
le pulsazioni della città sono leggibili sull’epidermide degli asfalti di Filippini, che ne coglie il ritmo di un cuore nascosto e lontano.
(Maurizio Bernardelli Curuz)
LA RICERCA:
Il linguaggio pittorico di Claudio Filippini è fedele testimone e discendente della ricerca figurativa italiana, figlio di un realismo di tempi e luoghi sospesi. L’artista infatti, attraverso una ricerca attenta e coerente, parte spesso dalla selezione di luoghi esistent, spesso urbani, ma anche interni domestici, e li traduce in forogrami pittorici, realizzati nella più pura tecnica a olio su tela. Le sue opere sono così fermo-immagini dello sguardo d’artista che deve “possedere” il reale per ricrearlo e rileggerlo attraverso la perfezione dell’atto pittorico. Come ha giustamente osservato Maurizio Bernardelli Curuz, ancora qualche anno addietro, Filippini è testimone figurativo del contemporaneo, dipingendo opere appartenenti ad un “landscape raffreddato, che rende conto delle nuove modalità di osservazione dell’uomo nella civiltà postindustriale”. Al contempo, dietro l’apparente aderenza al vero delle sue opere, si cela la dimensione del ricordo e della memoria, mentre la perfezione mimetica si dilegua in icone evanescenti. L’artista infatti gioca spesso sulla suspense e la sorpresa, come se volesse raccontarci ancora qualcosa, o forse solo suggerircelo, lasciando a noi la possibilità di dare un volto e un significato al suo mondo di misteriosa bellezza.
CENNI BIOGRAFICI:
Claudio Filippini è nato a Castenedolo (Brescia) nel 1953. Ha frequentato i corsi di disegno dell’Associazione Artisti Bresciani e la sua attività ha inizio nel 1976, anno della sua prima mostra personale alla quale faranno seguito altri numerosi eventi espositivi. Tra questi ricordiamo, nel 2003, la mostra personale curata da Maurizio Bernardelli Curuz, direttore artistico di Brescia Musei e completata da una importante pubblicazione. Nel maggio 2010 l’artista espone invece presso la Galleria Colossi Arte Contemporanea in una mostra intitolata Sospensioni e, sempre con la Galleria Colossi, partecipa a due importanti collettive, LUNA e l’altra. The art side of the Moon, dedicata al quarantesimo anniversario dello sbarco sulla Luna, nel settembre-novembre 2009 eMarylin. L’arte della Bellezza, a cura di Carlo Occhipinti presso Villa Ponti, ad Arona, nel novembre 2010-febbraio 2011.
Claudio Filippini
La strada del realismo e dell’iperrealismo è come due gradi progressivi d’osservazione della realtà; il primo: “colpo d’occhio”, nel sapore complessivo del paesaggio; il secondo: competizione post-tecnologica finalizzata al superamento della stessa macchina fotografica – costituisce il percorso compiuto da Claudio Filippini. La sperimentazione, nell’artista bresciano, non si sviluppa tanto nella ricerca dei materiali, quanto nel tessuto stesso dell’immagine, e come dicevamo, soprattutto nella modalità in cui avviene l’osservazione del reale. Gli esordi sono collocati sotto la grande frasca del paesaggismo lombardo: non poteva essere altrimenti, per quell’indispensabile allineamento ai valori ambientali della terra, in un continuo digradare di colline, nella successione di slarghi e di boschi, assecondando l’imprinting visivo in un territorio prealpino caratterizzato da laghi, scorci montani e da quel verde, quel verde denso, ricco di clorofilla eccessiva, per la presenza di umidità , per la nebbia, per le nubi basse che insistono su una terra grassa, per la frescura che provoca la crescita prospera delle bardane; insomma, per quel verde naturale che sarebbe passato dalla tavolozza di Francesco Filippini, e siamo a cavallo del primo Novecento; ai paesaggi vegetali anni Sessanta di Ennio Morlotti, altro lombardo che non seppe prescindere dalla qualità dell’ordito paesistico della sua regione e che, attraverso uno sguardo sempre più ravvicinato, avrebbe perpetuato, nel punto di raccordo tra figurazione ed astrazione, lo stesso verde, come una clorofilla densa mista a resina che cola da una ferita arborea. E questa visione dei verdi laddove Claudio Filippini si concede, con qualche preziosismo, una contemplazione naturale è quasi immutata. Nulla invece transita, nell’artista bresciano, della pittura impressionista, nonostante l’attenzione ai valori della luce. La stesura è infatti lenticolare, il colore viene fatto poggiare su una base fortemente contrassegnata delle linee di un disegno sovrano, che non si estingue in aureole luminose e che rifiuta la suggestione momentanea, l’en plein air guascone e rabdomantico. Un Paesaggismo rimeditato, quello di Filippini, lontano da ogni vibrazione ottico-sentimentale, da ogni pennellata piumosa, da ogni appunto consegnato come scelta definitiva. Il termine appropriato per definire la scelta tecnica compiuta dal pittore bresciano è quello di stesura: nel senso che la pellicola pittorica scorre senza iati o fratture, senza scoscendimenti della materia, in continuità di lievissimo spessore. Filippini e qui giungiamo al vero nodo della visione della realtà del pittore; lotta invece contro, e non con la macchina fotografica, in una sorta di luddismo distruttivo, per ricollocare l’atto della rappresentazione tra le mani dell’artista e riconsegnare alla fotografia il più semplice aspetto di resa documentaria della realtà . Il paesaggio dipinto dall’artista bresciano, per quanto minuzioso sia l’accostamento al dato visivo, appartiene fondamentalmente alla dimensione estetica del mito, asseconda le proiezioni dell’inconscio collettivo, mentre la fotografia se non costruita in termini artistici fino a diventare essa stessa un quadro è soltanto un fedele riflesso di una realtà immota; grado zero della scrittura del mondo. La rappresentazione in chiave iperrealista, praticata da Filippini, va al di là di questo grado neutro, per caricare il quadro di valenze interrogative. Le domande silenziosamente poste da Filippini riguardano appunto il luogo di rottura tra paesaggio naturale (cantato per più di un secolo dai nostri pittori) e la quinta urbana della modernità. Scomparsa la tentazione del pittoresco che l’artista assume in alcuni casi come ricordo dei magici incantamenti e degli stordimenti visivi di un’arte ormai impraticabile resta il nuovo paesaggio, con i suoi reiterati momenti di crisi visiva. Un landscape raffreddato, che rende conto delle nuove modalità di osservazione dell’uomo nella civiltà postindustriale. Claudio Filippini, nel suo percorso, ha teso proprio verso questo raggelamento, lui che, per temperamento, assumeva, agli esordi una dichiarata poetica sentimentale della raffigurazione naturale, seguendo un temperamento postromantico che lo induceva a contemplare gli anfiteatri naturali come se fossero quinte-specchio in cui si consustanziassero le malinconie, gli umori, le proiezioni psichiche dell’artista. La ricerca ha quindi imboccato la riduzione del gradiente delle emozioni, in direzione di un controllo assoluto, fortemente razionale, di una materia pittorica che viaggia al limite dell’eccesso di rappresentazione. Così in Filippini assistiamo all’alternanza di brani paesistici e nuove vedute urbane, che hanno lo scopo di abbassare la temperatura della contemplazione, portandola nel quadro percettivo della visione razionale. Nella produzione del bresciano, a targhe alterne, viaggiano alberi e periferie su cui transita bassa l’ala bituminosa dell’olio industriale e le polveri dense scendono sui tubolari di ferro e le traversine della ferrovia odorano di legno e di petrolio. La scelta di un registro antipittoresco contempera il desiderio estremo di una pittura dettagliata, crea il contrappunto quando non sviluppa un aperto controcanto rispetto a quell’atto contemplativo che ancora suscita nel pittore un richiamo profondo e anacronistico, quasi una discesa all’età dell’oro dei pittori. Per questo, nella produzione di Filippini, è ravvisabile il ritmo binario dei registri: gli scorci, in cui la città o la campagna, si appagano di un insito equilibrio formale e le zone in cui le lacerazioni visive provocate dalla civiltà industriale, arruffano e spezzano la solare linearità del paesaggio classico, e si collocano tra i luoghi esplorati dal realismo esistenziale (che negli anni della rinascita italiana racconta i luoghi periferici delle metropoli e della psiche) e dal realismo americano, caratterizzato da una visione on the road della realtà , colma dei simboli pop di uno sviluppo senza fine. Come una terra convulsa, in cui le pulsazioni della città sono leggibili sull’epidermide degli asfalti di Filippini, che ne coglie il ritmo di un cuore nascosto e lontano.
Maurizio Bernardelli Curuz